L’Aids è sempre più un problema al femminile. Lo confermano le rilevazioni illustrate lunedì a Roma in occasione del seminario europeo “European In and Out Project”, dedicato alla diffusione della malattia nelle carceri di cinque paesi (Italia, Spagna, Germania, Scozia e Ucraina).

La stima delle donne non tossicodipendenti che risultano sieropositive è arrivata a toccare il 10% dei detenuti che hanno accettato di sottoporsi al test dell’Hiv. Un dato sorprendente, che il professor Sergio Babudieri, dell’Istituto Malattie Infettive dell’Università di Sassari, spiega così: «Si tratta di soggetti che vivono in situazioni di marginalità e per i quali il carcere è il luogo dove la malattia viene intercettata. Sono donne per le quali la salute non è un bene primario perché vivono al limite della sopravvivenza e il carcere è l’unico luogo dove possono trovare educazione sanitaria e cure».

I penitenziari, dunque, non sarebbero un amplificatore, bensì «un concentratore di patologia, dal momento che ospitano prevalentemente individui appartenenti a strati socio-culturali che, soprattutto durante la permanenza in libertà, meno sentono il bisogno di salute come necessità primaria», sottolinea l’esperto. E ancora: «Per il 17,1% dei pazienti il carcere è l’occasione per iniziare la terapia, anche se poi solo il 42,% assume regolarmente i farmaci. Non perché questi non siano disponibili, ma perché molto è affidato alla buona volontà del paziente. Non si ricorda mai abbastanza che la salute in carcere è salute pubblica. Protezione della salute all’interno è anche salute fuori».