Preserve the Love. Wear a Condom.

Nel mondo della pubblicità nulla è lasciato al caso: per emergere nel rumore di fondo occorre colpire, sorprendere, persino disturbare. È quello che ha fatto Condomania, storico brand giapponese di preservativi, con la sua campagna intitolata “L’amore sotto vuoto”.

Le immagini parlano da sole: coppie abbracciate, nude , racchiuse in giganteschi sacchi di plastica trasparente sottovuoto. Una scena a metà tra performance artistica e film distopico, capace di evocare insieme intimità e claustrofobia.

Tra le caratteristiche più sorprendenti c’è sicuramente la calma e la rilassatezza dei protagonisti, dovremmo vederli agonizzanti alla ricerca di aria, invece hanno espressioni serene per nulla in disagio. 

Un messaggio ambiguo ma potente

La metafora è chiara fino a un certo punto. Da un lato, la plastica richiama l’idea di protezione: il preservativo come barriera sicura. Dall’altro, la stessa immagine suscita ansia, disagio, perfino repulsione. È proprio qui che la campagna divide: c’è chi la considera un colpo di genio creativo e chi invece un esercizio di cattivo gusto.

Perché funziona (e perché no)

  • Funziona perché nessuno riesce a ignorarla: è shock visivo allo stato puro, e il dibattito è parte integrante della strategia.
  • Non funziona se il pubblico resta bloccato solo dalla sensazione di disagio e non arriva mai a collegare l’immagine al messaggio di sicurezza e protezione sessuale.

Pubblicità o performance artistica?

In un’epoca in cui i contenuti pubblicitari competono con meme, serie tv e news, le aziende scelgono spesso la strada della provocazione estrema. L’amore sotto vuoto è al tempo stesso pubblicità, performance e provocazione: ci ricorda che la comunicazione non deve per forza essere rassicurante per essere efficace.

“L’amore sotto vuoto” non lascia indifferenti: c’è chi la giudica geniale e chi eccessiva, ma in entrambi i casi centra l’obiettivo. Nel bene e nel male, questa pubblicità ci fa riflettere su come percepiamo protezione, intimità e desiderio. Forse, dopotutto, è proprio questo il compito di una buona campagna: aprire un dialogo, anche scomodo.