Su una cosa la legge italiana è chiara: chi ha l’HiV non è costretto ad informare il partner del suo stato di salute, ma ha l’obbligo di usare il profilattico – maschile o femminile, a seconda dei casi – dall’inizio alla fine del rapporto. In caso di rottura, invece, è tenuto a spiegargli le possibili conseguenze dell’incidente e ad indicargli l’unica via di uscita entro le 48 ore: la PEP (Profilassi Post-Esposizione).

Per la giustizia italiana, il sieropositivo è l’unico responsabile di quello che accade in caso di contagio o di tentato contagio e, se finisce in tribunale, un HiV+ può arrivare a scontare anche oltre 20 anni di carcere.
I reati sono vari e dipendono da una serie di fattori: la consapevolezza del proprio stato di salute, la volontà di contagiare, il numero di vittime, il tipo di rapporto e l’evoluzione della malattia nelle persone inconsapevolmente infettate.

Epidemia, omicidio e lesione personale

«Il nostro ordinamento – spiega l’avv. Paolo Cichetti, specialista in diritti del malato – non ha mai configurato un reato specifico per i casi di contagio o rischio di contagio da HIV, ma ha scelto, a differenza di altri paesi, di utilizzare altre fattispecie già codificate. Una è il “delitto di epidemia” provocata mediante la diffusione di germi patogeni: può essere doloso (art. 438 c.p.) o colposo (art. 452 c.p.), ma è praticamente impossibile dimostrare il rapporto di causalità tra chi ha trasmesso il virus e la diffusione epidemica. Le figure delittuose di cui più frequentemente si sentirà parlare sono invece l’omicidio e la lesione personale».
L’unico caso in Italia di rinvio a giudizio per il delitto di epidemia, quello riguardante il 35enne Valentino Tatullo che aveva infettato decine di vittime con una strategia precisa e rigorosa, è finito con un’assoluzione per il reato (e una condanna a 22 anni per lesioni gravissime) anche in virtù di una vecchia sentenza per cui: “chiunque cagioni un’epidemia, ma chi la cagioni mediante la diffusione di germi patogeni di cui abbia il possesso, anche «in vivo» (animali di laboratorio), mentre deve escludersi che una persona, affetta da malattia contagiosa abbia il possesso dei germi che l’affliggono”.

Il reato di lesioni gravissime, sanzionato dagli articoli 582 e 583 del Codice Penale, si configura invece quando chi è affetto da HiV e ne è consapevole, trasmette il virus ad un’altra persona, senza precisa volontà di contagiarla.
Una volta accertato il contagio si parlerà di delitto doloso, se chi ha causato volontariamente il contagio ha taciuto la propria posizione ed omesso di utilizzare le dovute protezioni; il delitto sarà colposo, se non abbia adottato le cautele necessarie. Si parla invece di dolo eventuale, se l’autore del reato, pur non volendolo, ha accettato il rischio che la trasmissione si verificasse.
Il reato di tentato omicidio, infine, si configura qualora nella persona contagiata da HiV, la malattia evolva in AIDS e poi muoia.

«Una pronuncia del Tribunale di Roma – spiega l’ Avv. Cichetti – esclude l’esistenza di un nesso causale necessario tra la contrazione della sieropositività e quella dell’AIDS conclamata, pertanto, nel caso in cui la vittima del contagio si trovi nella fase di latenza clinica che caratterizza lo stato di sieropositività, la fattispecie delittuosa sarà quella della lesione personale aggravata ex art. 582 c.p., e non quella del tentato omicidio, non potendo essere ravvisata nel comportamento del colpevole una condotta idonea a cagionare la morte della vittima; il tentato omicidio, tuttavia, potrà trovare riscontro qualora la vittima del contagio abbia precocemente sviluppato la fase conclamata della malattia dalla quale discende, in modo sostanzialmente inevitabile, la morte».

Dolo eventuale e colpa cosciente: quando chi infetta “lo fa apposta”

Nella maggior parte dei casi chi trasmette l’HiV commette reato con colpa aggravata e non con dolo. Vediamo il perché.
La questione è dibattuta e da tempo impegna dottrina e giurisprudenza. Quali sono i confini tra dolo eventuale e colpa cosciente? Quando cioè chi, consapevolmente affetto dal virus dell’Aids, intrattiene rapporti sessuali non protetti con un partner sano e lo infetta, può essere accusato di averlo fatto apposta e ottenere le relative aggravanti.
Con la sentenza n. 44712 del 2008 la Corte di Cassazione affermò che: “risponde a titolo di dolo eventuale il soggetto sieropositivo che abbia ripetuti rapporti sessuali non protetti con il proprio partner quando risulti che fosse perfettamente a conoscenza del male dal quale era affetto e consapevole della concreta possibilità di trasmettere il male al proprio compagno”.

Il caso di Claudio Pinti, 36enne di Ancona che con metodicità decise di contagiare 228 partner, rientra appieno in questo dibattito. L’uomo aveva sempre negato l’esistenza del virus e di conseguenza il bisogno di una terapia, la necessità di proteggersi e quella di avvertire i partner della sua immunodeficienza.
Per Pinti, ora in carcere, è stato frattanto appena aperto un fascicolo: potrebbe trattarsi, ma la giustizia deve ancora fare il suo corso, di uno dei rarissimi casi in cui in Italia verrà comminata una pena aggiuntiva per “lesioni gravissime con colpa cosciente”.
L’avv. Cicchetti ci ricorda che tuttavia: «Nell’ambito dei delitti consumati è opinione prevalente, a proposito dell’elemento psicologico del reato, ritenere che il contagio per via sessuale debba essere ascritto all’agente a titolo di colpa aggravata dalla previsione dell’evento, perché agisce nella ragionevole speranza che esso non si verifichi. In questi casi l’agente agisce nella convinzione, giusta o sbagliata che sia, che il contagio non si verificherà».

L’ipotesi di delitto, doloso o colposo, e il caso Pinti

Sul fascicolo aperto dal procuratore Irene Bilotta e dal pm Marco Pucilli nei confronti di Claudio Pinti accusato di lesioni gravissime dolose potrebbe aggiungersi anche un’incriminazione per omicidio volontario. Il sospetto è che Pinti abbia infettato anche la compagna, Giovanna Gorini, morta a 32 anni dopo aver contratto anche lei l’Hiv. Lui le avrebbe impedito di curarsi, mentre continuava a frequentare siti d’incontri per sesso estremo.

Altro è il caso di morte non esplicitamente provocata del soggetto infettato, all’interno di relazioni sessuali ripetute nel tempo. L’avv. Cichetti ricorda in proposito che: «In caso di morte di un partner infettato nell’ambito di relazioni sessuali protratte nel tempo e connotate sia dall’assenza di precauzioni sia dalla mancata comunicazione al partner dello stato di sieropositività, l’ipotesi delittuosa più probabile sarà quella di“dolo eventuale”.Chi ha provocato la morte del partner sarà pertanto considerato colpevole, pur non volendo l’evento, di aver accettato il rischio che esso si verifichi come risultato della sua condotta».

Quando il contagio non avviene: il reato di tentate lesioni personali

Può anche accadere che, a seguito di un rapporto ripetuto nel tempo e senza protezione, il partner non venga mai contagiato. Questo, però, non significa che nessun reato sia stato compiuto.

Chi mette a rischio un’altra persona commette sempre un “delitto tentato”, punibile solo se non si tratta di rapporti occasionali. Secondo l’avvocato Cichetti: «Data l’incompatibilità tra la struttura normativa del dolo eventuale e quella del tentativo, si potrà parlare di tentativo punibile e quindi di dolo diretto, solo quando il rapporto potenzialmente contagiante non sia occasionale, ma integri una vera e propria relazione sessuale, cosicché il rischio di contagio diventa più probabile».
Quando il rapporto sessuale non protetto si trasforma dunque da “azione isolata” ad “attività”, acquisisce dunque la cosiddetta “efficienza causale” a trasmettere l’infezione da HIV. Mentre nel rapporto occasionale il rischio di contagio è solo possibile, saremo nell’ambito del “delitto impossibile per inidoneità della condotta”; nel secondo caso invece, essendoci una intenzione, si parlerà di tentate lesioni personali aggravate dolose.

La trasmissione materno-fetale

Alcune leggi che criminalizzano la trasmissione o l’esposizione all’HiV sono così generiche che permettono in teoria di perseguire le donne che hanno contagiato il figlio durante la gravidanza o l’allattamento. Milioni di donne che oggi hanno accesso a programmi di pianificazione familiare o a trattamenti che prevengono la trasmissione materno-fetale, una volta in gravidanza, voluta o indesiderata, potrebbero incorrere in un reato penale. C’è da capire come si orienterebbe la legge, in caso di donne vittime di stupro, anche domestico, in seguito al quale restano incinta e trasmettono involontariamente l’HiV al nascituro.
Per una donna, rimanere incinta se ha l’HiV può essere in sé oggetto di denuncia.

Ed è per questo che molte donne in stato interessante, preferiscono non sapere ed evitare il test HiV.
Nelle linee generali, come conclude l’avv. Cichetti: «l’uso delle sanzioni penali e la criminalizzazione dei rapporti sessuali non protetti, non solo non aiuta l’emersione del sommerso, ma non riduce affatto le probabilità di diffusione del virus. Poiché la responsabilità penale deriva dalla consapevolezza del proprio status da parte della persona infetta, uomini e donne spesso preferiscono non sapere e continuare a farsi del male».

La criminalizzazione indiscriminata della trasmissione dell’HiV non è dunque la soluzione. E come dimostrato da tante organizzazioni internazionali in svariate occasioni (qui la sintesi delle idee, nel lavoro “10 motivi per opporsi alla criminalizzazione della trasmissione o esposizione al virus dell’HiV”) mette a repentaglio i programmi – che tramite il rispetto dei diritti umani – aiutano prevenire l’infezione oaffrontare la sieropositività con coraggio e voglia di vivere.